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La danza contemporanea di Taoufiq Izeddiou

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Taoufiq Izeddiou è un coreografo e danzatore noto a livello internazionale. Ha recentemente condotto a Bologna il primo dei due laboratori di danza che preparano la performance di '100 pas presque', che verrà presentata il 24 giugno durante 'Right to the City - Diritto alla Città', il festival internazionale di Atlas of Transitions. In questa intervista, realizzata il 9 aprile 2018, Taoufiq parla di danza contemporanea e del perché dovremmo tutti camminare insieme...

 

D: Cosa significa ’100 pas presque’, cento passi quasi?
R: Se penso a tutto il lavoro che abbiamo fatto in luoghi diversi, direi che ‘100 pas presque’ è un concetto, che acquista ogni volta un significato diverso. Quando vedo la gente che cammina insieme, ho l’impressione di vedere il mondo stesso che cammina, con tutti i suoi problemi e le sue identità. L’unica cosa che posso dire a questa società è di camminare insieme nella stessa direzione, di ascoltarci l’un l’altro, e di comunicare un messaggio comune, di trovare un linguaggio univoco… una cosa che non esiste nel mondo di oggi, o che piano piano sta sparendo, se preferisci. È come un’urgenza che ci sta chiamando, per questo voglio invitare tutti a partecipare a questa camminata. L’ascolto, il cammino, fare i passi insieme, rallentare il tempo… tutto questo serve a riflettere, a trovare una melodia comune, le parole… È un po’ utopico, un po’ idealista, me ne rendo conto, ma perché non sognare?

 

D: Come riesci ad integrare una performance come ‘100 pas presque’ nei contesti urbani di città diverse tra loro?
R: Prima di tutto, insieme ai partecipanti è necessario creare una specie di colonna vertebrale della camminata. E questo è un concetto che si può adattare a ogni luogo e tempo. Tutto dipende da noi.  A me piace molto riunire amatori, professionisti, giovani e anziani. Qui a Bologna, per esempio, partecipano al laboratorio una signora di una certa età e anche una giovane ragazza di 16 anni – ‘100 pas presque’ è multigenerazionale! E poi ci sono i rifugiati politici, gli abitanti della città, i migranti che vivono in Italia e che hanno preso la cittadinanza italiana. Quando abbiamo portato questa performance in Giordania e in Egitto, o anche a Venezia, le emozioni sono state molto diverse. Il corpo e lo spazio pubblico non hanno la stessa dimensione in ogni luogo, e la camminata avviene poi con energie e intenzioni diverse.

 

D: Tu lavori con persone che hanno storie e conoscenze diverse, a volte anche molto lontane tra di loro… Come riesci a creare quel corpo unico, quella colonna vertebrale di cui parli?
R: Partiamo dall’idea di ‘camminare’. Che cosa significa camminare?  Sembra una cosa quotidiana, banale. Ci alziamo, camminiamo, ci sediamo, ci stendiamo… Camminare è la prima cosa che impariamo a fare. Mi piacerebbe lavorare sui movimenti che fa un bambino durante la sua crescita...  Partendo dall’idea di cammino, quindi, prende forma anche il concetto di caduta. Camminare significa cadere. Cadere vuol dire imparare a camminare – questa è la regola d’oro che seguo ogni volta. Se rallentiamo il tempo camminando, fermiamo anche lo spazio intorno. Se poi cerchiamo nel profondo, cercando i ricordi più lontani, si forma un’armonia tra di noi. Le persone si riconoscono in un principio comune… Scegliamo di camminare nella stessa direzione, verso un futuro, un presente, un passato… È come scrivere una partitura di un’ora, in crescendo. Così il lavoro di tutto il gruppo si compie, perché nessuno rimane da solo. Ciascuno lavora sul proprio materiale, sulle proprie emozioni, per trovare quel movimento che scatena il loro corpo. Quando qualcuno partecipa a ‘100 pas presque’, porta con sé il proprio bagaglio personale e lo utilizza in mezzo a un contesto collettivo. L’obiettivo è avere individui forti in una comunità forte – essere insieme ma permettere a ciascuno di esprimersi. Nel gruppo, vengono individuati dei ‘guardiani’ – del tempo, dello spazio e dell’energia – che diventano poi punti di riferimento e che aiutano gli altri ad avanzare nello spazio, durante la performance. Ovviamente ognuno ha il suo corpo, il proprio percorso, ricordi, sogni… ma soprattutto ha il desiderio di condividere la camminata con gli altri. Accade molto di rado che ci troviamo a camminare insieme ad altre cento persone, no? Di solito camminiamo in città accanto a uno o due persone...

D: Come coreografo, componi spettacoli collettivi ma lavori anche individualmente, portando il tuo solo corpo sul palco. Credi che danzare, come linguaggio espressivo, sia diverso in questi due casi? In altre parole, cos’è la danza?
Sì, certo! C’è differenza tra la danza che propongo nelle performance che eseguo da solo e quella che elaboro per spettacoli eseguiti in gruppo. Riflette un mio bisogno di dualità, che è legata al mio percorso di vita. Sento la necessità di avere tempo per me solo, di sviluppare una danza individuale. D'altra parte, sento anche di dover amplificare quello che esploro da solo e di condividerlo, di sognarlo collettivamente, di orchestrarlo e di coreografare altri corpi. Un po’ come dire che lavorare da solo mi prepara a una performance più grande, collettiva, e che una performance di gruppo mi prepara invece a danzare da solo.

 

D: Parliamo ancora di ‘100 pas presque… Come sono state le edizioni precedenti, nelle altre città?
R: All’inizio, ‘100 pas  presque’ è stato un pretesto per affermare che, in Marocco, la danza contemporanea esiste.  Volevamo dare visibilità ai danzatori, bloccando il cuore della città per un’ora mentre attraversavamo una rotonda. Era un’idea radicale, come per dire: “Ehi, siamo qui! Perché non parliamo, non facciamo qualcosa insieme?”. Allora non era un progetto ‘da esportare’, né un concetto artistico. Rappresentava una forma di ribellione, una dimostrazione ‘creativa’ all’interno dello spazio pubblico, per farci sentire, per dire che la danza è ben presente nella scena artistica del Marocco e che ci sono tanti danzatori. Poi, nel 2013, ho ricevuto la proposta di esportare ‘100 pas presque’ per la prima volta, a Marsiglia. Lì abbiamo lavorato per tre giorni con musicisti curdi e danzatori professionisti. Abbiamo fatto la performance al vecchio porto di Marsiglia – è stato incredibile. Da quel momento, che è stato pieno di magia, ‘100 pas presque’ è diventato un concetto universale, di cui tutti si possono appropriare.

 

D: Come risponde il pubblico a questa performance?
R: Dato che la camminata si sviluppa nell’arco di un’ora, l’energia si accumula progressivamente per circa 45 minuti, il tempo durante il quale attraversiamo lentamente lo spazio. In questo lasso di tempo il pubblico accumula delle sensazioni, e anche un certo senso di attesa. Alla fine arriva una vera e propria esplosione dei corpi… non quella di cui sentiamo parlare ogni giorno al telegiornale… è un’esplosione danzante, del movimento, dell’anima, dello spirito, del corpo, e del danzatore. Durante questi 45 minuti invitiamo la gente intorno a raggiungerci. Il pubblico è quindi preparato, ed è consapevole che vivrà qualcosa insieme a noi. Di colpo poi tutti diventano danzatori, musicisti, cantanti. La danza è in ognuno di noi, in ogni corpo, in ogni esperienza di vita. Non possiamo nasconderlo: abbiamo tutti danza e musica dentro di noi.  Ogni volta il pubblico è incantato da questo nostro invito finale, e balla e si libera insieme a noi… è come un biglietto da visita per la danza stessa.

D: È mai capitato che un camminatore si staccasse dal gruppo? Che all’improvviso creasse una situazione imprevedibile, cambiando quanto era stato preparato in prova, per esempio?
R: Sì. Una volta uno dei partecipanti è arrivato con degli oggetti. Non so dove li avesse presi, o come siano arrivati anche agli altri... comunque il risultato è stato che più che una camminata collettiva la performance è diventata un laboratorio d’improvvisazione. Se decade l’idea di camminare insieme, il progetto perde senso nello spazio pubblico. Diventa un laboratorio di sperimentazione, d’improvvisazione… Per questo motivo la mia regola d’oro è: nessun oggetto! A volte capita che due persone che camminano vicine inizino a ballare insieme. Hanno voglia di fare il cammino in due, di creare una sorta di duo… e anche questo modifica il risultato ricercato in ‘100 pas presque’. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo un gruppo, che la presenza forte delle nostre individualità può emergere solo saltuariamente. Un’altra volta un piccione ha camminato insieme a noi per quasi 50 metri. Ci precedeva, e quando ci avvicinavamo, lui si muoveva e poi ci aspettava, e così via. Si potrebbe dire, poi, che il luogo della performance è sacralizzato dal filo che lo circoscrive, usato per evitare che la gente lo attraversi, e che lo spazio diviene visibile all’occhio del pubblico man mano che la distanza tra danza e musica diminuisce.

 

D: Stai preparando ‘100 pas presque’ qui a Bologna. Cerchi un risultato preciso dalla performance che si terrà durante ‘Right to the City’, il primo festival di Atlas of Transitions?
R : Sono molto felice di far parte di Atlas of Transitions. Sono qui da tre giorni e sono molto sorpreso della qualità del laboratorio. I partecipanti hanno già sviluppato grande concentrazione e cominciano ad appropriarsi del concetto. Questa camminata sta diventando il loro progetto. Non c’è niente di meglio per me che diventare invisibile durante la pratica e dare spazio a tutti. Atlas of Transitions risponde alle questioni che sollevano i media, la politica, che vengono dibattute in ambito sociale e artistico. Invece di discutere su come gestire la questione dei migranti, dei rifugiati… come andare avanti… bisognerebbe sì interrogarsi, ma camminando insieme… perché quando guardo alle persone che partecipano insieme a ‘100 pas presque’ ho l’impressione di vedere il mondo intero che cammina. Mi riscalda il cuore e mi viene voglia di continuare a proporlo, nella speranza che possa viaggiare da una città all’altra, da una popolazione all’altra, come un momento di aggregazione. Ognuno di noi si chiede ‘Chi sono io? Chi sono gli altri? In che mondo vivo?’…

 

D: Come è nato ‘On Marche’, il festival che si tiene a Marrakech, e quali sono le sue aspirazioni?
R: Non avevo l’intenzione di mettere su un festival... L’idea era quella di avere l’occasione per confrontarci con gli artisti e i coreografi che lavorano in Marocco e trascorrere una settimana a porsi delle domande sul lavoro di ognuno, per capire le reazioni del pubblico alla creazione artistica contemporanea. Questo accadeva nel 2005. Fu una sorta di ‘sopralluogo’, per analizzare lo stato delle cose in Marocco. In una settimana di lavoro intenso abbiamo cercato di rispondere alla domanda: ‘Come facciamo a far durare questa nostra idea di arte?’, che in quegli anni era nuova per il pubblico. Il festival è stato un vero successo, grazie alla partecipazione attiva di tutti gli artisti, degli organizzatori, di Saïd, di me, di tutti, di Meriem… di tutti coloro che hanno contribuito alla sua realizzazione. A un certo punto ci siamo chiesti: ‘Come facciamo a trasformare ‘On Marche’ in un festival che sia diverso da tutti gli altri? Volevamo un festival che ascoltasse il suo pubblico e il suo territorio.

Dal 2017, ‘On Marche’ ha trovato la sua identità ed è diventato un festival che permette a tanti danzatori e coreografi in Marocco di uscire dall’oscurità. Ci sono poi professionisti che vengono da tutto il mondo per eseguire le loro performance nello spazio pubblico di Marrakech. Oggi vogliamo che questo festival diffonda nuove idee, anche per le generazioni future. Purtroppo però, anche se vuole crescere, è un festival che ha pochi strumenti. Non per mancanza di talento o di mezzi artistici, e il team che lo organizza è fortemente coinvolto... anche i danzatori sono diventati organizzatori! Non c’è un solo direttore, e tutti fanno tutto… Questo è l’unico modo per sopravvivere. Per il 2020 intendiamo organizzare il più grande evento di danza mai realizzato in Africa, ‘Danse l’Afrique, Danse’. Nel 2019 si terranno le audizioni per i coreografi e nel 2020 il festival... Se nel 2021 non si è mosso niente, se non ci sono stati dei risultati, allora mi ritiro! (ride)

 

D: E il progetto ‘Botero en Orient’?
R: Il progetto è partito con un’idea un po’ pazza, come ogni idea che mi venga in mente prima di una creazione artistica. Per un nuovo spettacolo di danza contemporanea volevo lavorare con sei o sette lottatori di sumo, ma poi ho scoperto che è una cosa impossibile da fare perché questi lottatori sono considerati un po’ come degli dèi in terra. Quindi ho pensato di selezionare dei danzatori a partire dalla loro taglia – tra loro io dovrei essere quello più magro. Ad oggi sono riuscito a coinvolgere quattro danzatori, un artista visuale, un sound designer, un light designer e una cantante. A breve cominceremo un lavoro residenziale a Bruxelles e a La Louvière, in Belgio. Questo progetto si ispira delle opere di Botero ‘in Oriente’, soprattutto alle istallazioni che raccontano quanto è accaduto nella prigione di Abu Ghraib, in Iraq. Quando Botero diede questi lavori ad alcuni grandi musei americani, fece un gesto politico importante...
Botero en Orien’ affronta la questione del corpo oggi, della danza contemporanea, del corpo danzante. Si chiede com’è possibile attualizzare, intervenire sull’immagine del corpo classico, perché il corpo è così e non così, perché il corpo del danzatore fa questo e non quello… Lo chiamo ‘balletto botero’, è uno spettacolo molto fisico. Non ho ancora abbandonato l’idea di lavorare con i lottatori di sumo. Anzi, penso che andrò in Giappone a girare un video di tre minuti con almeno uno di loro, che verrà poi integrato nello spettacolo. Vorrei che i gesti dei danzatori fossero amplificati in qualche modo… il loro movimento, la loro presenza, il corpo, insomma, per parlare di un corpo diverso, di un’altra forma di danza. ‘Botero en Orient’ sarà pronto nel 2019 e verrà presentato a Bordeaux, Marsiglia, Vitry, al Théâtre National de Bruxelles, a Aix-en-Provence, e forse ci sarà anche una tournée in Marocco, negli istituti francesi...

Intervista e video di Konstancja Dunin-Wasowicz